Uomo libero, tu amerai il mare
photo © Marco Castagneri
di Ercole Giammarco
“Homme libre, toujours tu chériras la mer”
Charles Baudelaire
Gli antichi greci attribuivano a ogni specie di albero un profilo psicologico, un carattere antropomorfo. Con la loro straordinaria sensibilità pagana nel leggere la natura avevano anticipato di duemila anni i risultati della ricerca scientifica sulla psicologia delle piante (le piante sentono, ricordano, soffrono, gioiscono).
Se dovessi paragonare Marco a un albero non avrei dubbi: un ulivo. Come un ulivo Marco è scavato dal vento, come un ulivo ha il corpo nodoso scolpito dagli elementi più estremi della natura. E ha imparato a resistere a tutto, come il legno d’ulivo. E’ anche di poche, pochissime parole (non che una betulla chiacchieri di più, ma mi viene da dire che una betulla, se potesse parlare, sarebbe sicuramente più loquace di un ulivo).
Marco prende il largo nel 1980, a 20 anni, perché era arrivato il momento di prendere il largo.
“Un Sangermani di trenta metri, nuovo di pacca, da portare a New York partendo da Levanto, dove era stato appena varato. Quel legno era una favola”. Una favola è l’espressione che preferisce. Una favola è L’idiota di Dostoevskij, una favola la schiacciata toscana del panettiere sotto casa, una favola mangiare salmone affumicato innaffiato di vodka.
Marco Castagneri
Si imbarca a vent’anni e continua ad andare per mare, ininterrottamente, per i successivi 14 facendo delivery per velieri per conto di miliardari portandoli da un posto all’altro del mondo.
Ha navigato in lungo e in largo l’Oceano Pacifico, L’Oceano Indiano: l’Atlantico lo ha attraversato almeno 15 volte. Galapagos, Thaiti, Perth, Vanuatu per me sono nomi fiabeschi, per lui altrettanti “posti dove è stato a lavorare”.
I piedi di Marco sono rimasti quelli dei marinai che vanno scalzi dieci mesi all’anno: larghi, quasi prensili, uno strumenti di lavoro. I tatuaggi maori non glie li ha fatti un tatuatore hipster di Milano, ma un Maori vero, che ha deciso di scrivergli sulla pelle la sua vita, dopo averla ascoltata per una settimana, in Nuova Zelanda. E il suo corpo racconta davvero la sua vita: nell’85 una cima che entra improvvisamente in tensione gli trancia tre dita: era sulla barca di Bill Koch, uno degli uomini più ricchi del mondo. Due dita gliele ricuciono, una no. Per i miei figli, e per tutti i bambini che guardavano affascinati quel piccolo moncherino, il dito era stato mangiato da uno squalo bianco, durante un combattimento a mani nude. Allo squalo bianco però, continua la leggenda, quello spuntino costò caro.
I miei figli, diventati grandi, non hanno mai chiesto a Marco come effettivamente fossero andate le cose: dopo aver scoperto che Babbo Natale non esiste non si sono sentiti di affrontare un secondo trauma.
Della vita pazzesca che ha avuto ti rendi conto per accenni vaghi, spesso casuali: c’è un film con Nicolas Cage, e lui bofonchia che ci ha passato una settimana portandogli la barca da un capo all’altro del mondo. Senti un pezzo dei Rolling Stones e ti dice en passant che Keith Richards era simpaticissimo, ma suo padre “era una favola”, soprattutto dopo la terza birra.
Nel 1998 Bertelli lo fa entrare nello shore team di Luna Rossa, e si trasferisce in Nuova Zelanda per tre anni. Lavora dietro le quinte, soprattutto sulla messa a punto di quella barca che compirà il miracolo di vincere la Louis Vuitton.
In Nuova Zelanda non è andato solo, ma con Majla, che aveva conosciuto e di cui si era innamorato a diciassette anni, che ritrova per caso in un aeroporto, quasi vent’anni dopo. Con lei si sposa, arrivano i figli, e Marco, con Majla, attracca a San Donato in Collina, un borgo a sud di Firenze. Alterna il delivery di barche alla gestione di un b&b in una torre trecentesca dove ospitano turisti da tutto il mondo che dopo una settimana a Firenze vogliono visitare la meravigliosa campagna alle sue porte. Dormono nei piccoli appartamenti ricavati dalla torre, ma partecipano anche a lezioni di cucina (tagliatelle, paste ripiene…) e i risultati della scuola di cucina li mangiano a cena.
Vedere Marco cucinare è una favola: cucina per venti persone e quando ha finito la cucina sembra non sia stata mai utilizzata: “se devi cucinare in barca e non metti in ordine mentre cucini, è un problema (non ha usato esattamente questa espressione ndr). Poi, ti resta l’abitudine”. Non parlo della qualità della sua cucina perché è più bravo di me, e non lo sopporto.
Ora Marco non va più per mare, ma non ha smesso di viaggiare negli oceani che lo hanno scolpito come un albero di ulivo (scusate, non riesco a smettere). Adesso sono oceani fatti di terra. E’ diventato un campione di Rogaining, che non è una marca di cibo per gatti, ma l’acronimo di Rugged Outdoor Activity Involving Navigation and Endurance. Funziona cosi: arrivi in un posto selvaggio e possibilmente molto inospitale (può essere indifferentemente il deserto australiano, un altopiano in Lettonia, una montagna dei Pirenei) con poco cibo e una carta topografica, e inizi una specie di caccia al tesoro dormendo all’aperto se c’è tempo di dormire, camminando anche per due giorni filati in mezzo alla natura selvaggia. In posti, diciamo cosi, dove il cellulare non prende. Non è uno sport diffusissimo. Chiedetevi perché.
Marco non ha voglia di raccontare le sue storie. Non gli serve, gli basta averle vissute. E non si chiede perché abbia avuto una vita cosi. Semplicemente ne aveva bisogno, e l’ha vissuta. E’ una persona vera, la persona più autentica che io conosca. Niente di lui è inautentico: né i suoi tatuaggi, né la sua faccia, né le sue poche parole, e neanche il modo brusco con cui ti riempie il bicchiere.
Forse perché è vissuto libero, sempre.