Wafaa Amer. Ho scelto di essere libera
photo © Matteo Pavana, Wafaa Amer, La Sportiva
di Alessandro Gogna
Wafaa Amer nasce il 18 novembre 1996 nel villaggio di Aghur, in Egitto. Fino ad 8 anni viene cresciuta dai nonni assieme alle sue sorelle, poiché i suoi genitori si erano già trasferiti in Italia. A 9 anni Wafaa raggiunge i genitori nel Bel Paese dove si confronta e cresce in un mondo totalmente diverso rispetto a quello della sua infanzia. Impara una nuova lingua, si approccia ad una cultura differente, più aperta per una donna della sue età, e conosce per la prima volta l’arrampicata.
A 15 anni infatti, grazie alla generosità del padre di un’amica che le paga il suo primo corso, comincia a praticare questo nuovo sport, che in breve tempo muta in una forma di libertà pura. Hura, come la chiamano in Egitto.
Per Wafaa però, praticare sport non è semplice come per gli altri coetanei: per via delle sue origini e della sua religione il padre non approva certe influenze della cultura occidentale nelle sue scelte di vita, e Wafaa si trova costretta ad andare in palestra di nascosto per allenarsi.
Ha grinta e talento e basta poco tempo affinché gli allenamenti sfocino nelle prime competizioni e le prime vittorie non tardano ad arrivare. Frequentando altre persone al di fuori della sua famiglia, Wafaa comincia a cambiare, a capire che esistono modi alternativi di vivere, nuovi modi di interpretare la libertà, che sono però incompatibili con la tradizione musulmana.
Sono questi gli anni più difficili per Wafaa. Le differenze tra la sua vita e le sue radici sono talmente forti da suscitarle un durissimo contrasto interiore. La possibilità di vivere una vita diversa rispetto a quella che aveva conosciuto fino a quel momento, la costringe ad allontanarsi dalla sua famiglia, dove ormai il gap religioso e culturale è incolmabile e la disapprovazione nei suoi confronti si è fatta insopportabile.
All’età di 18 anni si prospetta lo scenario di ritornare in Egitto per continuare la sua vita lì, come tradizione impone. Per Wafaa è ormai impensabile abbandonare la vita che si è costruita da sola fino a quel momento, lasciare la palestra, le prese, i compagni che le fanno sicura, gli amici, e per questo decide di trasferirsi dagli amici di Finale Ligure, dove trova una nuova famiglia, supporto e comprensione. Ci vogliono due anni per trovare una sistemazione e un lavoro vero e proprio, ma finalmente, e non senza fatica, Wafaa trova la libertà che stava cercando. È il periodo in cui scopre l’arrampicata su roccia e, con essa, una nuova dimensione di equilibrio. Lo si vede nel suo sorriso e da come si muove sulla roccia. Nel Finalese riesce a salire tiri impegnativi come Radical Chic (il primo 8a finalese, a Monte Cucco) e la più famosa Hyaena, storico tiro del celebre Andrea Gallo, firmando la seconda salita femminile. In questi anni Wafaa consolida le sue nuove radici in Liguria trasferendosi presso la fattoria sociale “Il Bandito e la Principessa”. Oggi, all’età di venticinque anni, Wafaa continua la sua vita a Finale Ligure, dividendosi tra passione e lavoro, liberamente, scegliendo ogni giorno chi vuole essere.
Come eri da piccola?
Ero simile alla più piccola delle mie sorelle e completamente diversa dalla più grande. Loro comunque rispettavano le regole, erano ubbidienti, più pacate. Io ero iperattiva, non stavo mai a casa. O ero con mio nonno nelle nostre piantagioni (o prodotti li andavamo a vendere al mercato) oppure giocavo con i miei cugini, maschi, in particolare con Ahmed. Questo era proibito. La mamma mi aveva detto che le femmine non possono uscire con i maschi, a meno che non siano uniti in matrimonio. Quindi neppure con i cugini, perché comunque in Egitto si fanno purtroppo ancora matrimoni tra cugini, anche se non proprio “primi”. Con il mio comportamento dunque ero una ribelle, anche se non me ne rendevo conto. Ero piccolina, magra, con tanti capelli “sparati” come adesso.
Circostanze in cui hai cominciato ad arrampicare, curiosità.
Nei nostri campi, in Egitto, c’era una palma molto alta e sempre carica di datteri. Passavo molto tempo a guardarla fino a che un giorno il nonno non mi ha detto “Cosa fai ancora lì, perché non sali?”. Non pensavo fosse possibile, ma con il suo incitamento lo feci la prima volta e poi tante altre ancora.
In Italia, a scuola, venni a sapere di un “corso di arrampicata”. Io, pur ricordando le mie salite sulla palma, non riuscivo neppure a capire su cosa si arrampicasse. Poi una mia amica e suo padre mi hanno pagato il corso. Fu una grande emozione entrare in palestra e vedere i muri con tutte quelle prese colorate… un nuovo parco giochi! È stato davvero coinvolgente, tra l’altro un istruttore mi diceva che ero davvero forte. Mi propose anche di frequentare la palestra qualche pomeriggio, grazie alla tessera scolastica. Per me, non abituata a ricevere nessun tipo di complimenti, senza amicizie perché da poco in Italia, fu l’aprirsi di un nuovo mondo, dove avevo l’impressione nessuno facesse distinzione di razza, di lingua e di età. Tutti hanno incominciato a darmi una mano, io ero sempre nel divieto di farlo, ma l’aiuto che mi davano era molto più forte di qualunque proibizione.
Quando hai capito che le donne possono fare le stesse cose degli uomini, a volte anche meglio?
Subito, appena entrata in quella palestra. Abituata a vivere dove donne e uomini mai possono stare assieme, dove occorre deviare dalla propria strada se si vede che occorre passare vicino a qualche uomo, dove apertamente si evita di uscire se non strettamente necessario. Vidi uomini e donne assieme nello stesso genere di attività… Mi fu naturale pensare “ma allora possiamo fare le stesse cose”. Iniziò lì il contrasto interiore: imparavo questo nuovo modo di vivere e capivo il grande contrasto con le mie radici. Mille domande e mille sensi di colpa. Quindi ho compreso la nostra uguaglianza, pressoché integrale, solo negli spogliatoi per cambiarci era conservata la diversità. Poi, solo tempo dopo, ho realizzato che talvolta possiamo fare meglio degli uomini. Ma questo non è così importante: era l’uguaglianza che mi stava rendendo una persona più aperta.
Wafaa Amer
Quanto ritieni l’arrampicata possa contare nell’ambito della vita in generale?
Parlando del mio caso, certamente molto, per lo stile di vita, per l’allargamento dei miei orizzonti. Anche in un caso come quello di Sara Grippo l’arrampicata è stata ed è importante. In generale, spostare i propri limiti è certo terapeutico. Penso che risolvere con fatica e applicazione i piccoli nostri problemi di arrampicata o di boulder aiuti in generale a risolvere con maggiore facilità le difficoltà che ci oppone la vita. Arrampicare ti insegna a pensare che ce la puoi fare, che c’è sempre una soluzione.
Quanto è stata utile l’arrampicata nel tuo processo di integrazione in Italia?
Per natura sono sempre stata aperta, lo dimostra anche ciò che ho detto prima sulla mia spontaneità a giocare e a fare nuove amicizie. Ma anche l’arrampicata, in Italia e con problemi di lingua, mi ha aiutata a socializzare. Quando uscivo con gli amici, sempre di nascosto, era grazie alla comune attività dell’arrampicata. Ho imparato a uscire con una mia amica per una pizza assieme, oppure per una visita al centro commerciale. Tutte “prime volte” che mi hanno aiutata tantissimo a integrarmi. Grazie alle amicizie sento di essere pienamente a mio agio in questo paese.
Quanto è stata utile l’arrampicata nella tua ricerca della libertà e relativo doloroso distacco dal padre?
Inizialmente tutte le estati tornavamo in Egitto per andare a trovare i nonni. E lì ho ulteriormente realizzato quanta differenza ci fosse con il mio nuovo mondo, anche se questo non era del tutto libero, avevo ancora parecchi vincoli, non solo per ciò che riguardava gli orari di rientro.
Ma la quantità di regole che avevo in Egitto non era più sopportabile. In più un giorno ho sentito che mio padre diceva che io sarei dovuta tornare in Egitto per sempre, “per portare avanti la mia vita di donna egiziana, sposarmi, ecc.”. La mia prima reazione non fu quella di pensare alla perdita di libertà (magari quel problema era solo inconscio): fu invece quella di pensare con terrore alla perdita dell’arrampicata e degli amici. Senza di quello non riuscivo neppure a immaginare di poter vivere. Era così pesante quella prospettiva che ho preso la decisione di staccarmi dalla famiglia. Sì, è stato doloroso. Dapprima è stato un distacco totale, poi però ha vinto la nostra unità. Pur non avendo rapporti con mio papà, fermo nella sua rigida posizione, da parte di mamma, sorelle e fratellini c’è grande solidarietà con me e con la mia passione, nella quale non c’è proprio nulla di male. Addirittura mi hanno “coperta” con un sacco di bugie quando andavo a fare le gare. Con quel distacco, e quindi grazie alla disciplina dell’arrampicata, ho riacquisito la mia libertà.
Come sei riuscita a far accettare alla tua famiglia quello che sei oggi?
Anche mia madre era del tutto contraria alla mia fuoriuscita. Una donna non può andarsene di casa se non è sposata. In realtà l’ho costretta all’accettazione del dato di fatto, non ho chiesto il permesso. Però mi ha sempre aiutata, quando ero fuori metteva i cuscini nel letto per simulare che io stessi dormendo, oppure diceva che stavo studiando. Mio fratello mi gettava dalla finestra il pigiama, così potevo cambiarmi prima di entrare in casa. In definitiva mio padre soltanto non ha mai accettato il mio stile di vita.
Nei primi tempi come hai fatto a mantenerti?
Prima di andare via di casa ho venduto tutti i miei premi. Avevo intenzione di andare ad Arco a fare le gare giovanili. Volevo fare bene, come in precedenza, per poter essere convocata nella squadra nazionale. Ho vissuto un mese nell’ansia di non saper come comunicare a mio padre questa decisione. Mi aiutava potergli dire che mi sarei potuta pagare le spese grazie a quella vendita. Poi lo sentii mentre diceva che mi avrebbe rispedita in Egitto, quindi presi la mia decisione definitiva: non più i soli tre giorni per fare le gare, ma via per sempre. Ad Arco non andai e fu un grosso dispiacere. Quell’anno era l’ultima occasione che avevo di poter gareggiare under 20: preferii usare quei pochi soldi nell’attesa di trovarmi un primo lavoretto in un ristorante. Poi altri lavoretti in altri ristoranti, poi per due anni in un campeggio, finché non sono riuscita a sistemarmi.
Una o due imprese che pensi davvero essenziali per la tua esperienza.
La mia impresa “più grande”, se così si può dire, è stata quella di andarmene di casa, andando contro la mia famiglia e la mia cultura. Penso d’essere stata davvero coraggiosa. Solo così ho potuto aiutare mia madre quando poi si è separata da mio padre. Ma poi, e questa è cosa recentissima, sono fiera del progetto sociale che ho condotto in Pakistan. Allo stesso modo in cui io ero stata aiutata da ragazzina da chi ha creduto in me e da chi mi ha regalato i primi materiali, in Pakistan ho potuto esporre alle mie coetanee la mia esperienza, mostrando come una disciplina come l’arrampicata possa essere davvero utile per incamminarsi verso la propria libertà. Ho mostrato loro come costruirsi un pannello, le ho portate a scalare. Un grosso lavoro, con bellissimi risultati.
Gare o prestazioni su roccia. Cosa preferisci? Dove preferiresti lasciare una tua impronta?
Premetto che per me la roccia non è prestazione. So che la domanda non era intesa in questo senso, ma spesso sono costretta a precisarlo con le persone che invece pensano solo in chiave di prestazione. Non ho mai pensato “vado su roccia per fare l’impresa”, e questo lo dimostra l’intera mia storia. Amo entrambe le discipline allo stesso modo. Devo però dire che nelle competizioni il livello si è alzato tantissimo: dovendo lavorare e assentarmi per gli eventi cui mi invitano, non posso allenarmi come vorrei e come sarebbe necessario. Sono stata dunque costretta a lasciare quell’attività.
Quali sono i tuoi limiti attuali? Pensi di poter ulteriormente progredire?
Il mio percorso di arrampicata è strettamente legato al concetto di libertà, dunque i limiti sono solo una questione di percezione. Penso perciò che sì, posso ancora progredire, chi s’impegna può farlo. Se mi metto in testa di fare un 9b, certo che lo scopro come limite. Ma se mi alleno duramente, se riporto su pannello tutti i movimenti necessari, alla fine penso di poterlo fare. Beh, magari 9b… no. Però è solo un esempio per dire come la penso.
Come pensi di proseguire il tuo percorso atletico e professionale?
Semplicemente continuando a fare le cose che amo fare. Cioè portando avanti i miei molti progetti, anche se oggi è difficile farlo, soprattutto per me che non sono molto brava a organizzarmi le cose… Beh, un sogno l’avrei, ma è un po’ complicato e poi non vorrei per ora renderlo pubblico.
Come ti vedi da qui a 10 anni? Qual è il più grande obiettivo che vorresti raggiungere?
Dieci anni? Mi viene paura… da “bimba” che sono forse ho paura di diventare grande… Però mi è sempre piaciuto disegnare. Magari tra dieci anni sarò diventata modellista, magari disegnerò per dei marchi, anche sportivi. Oppure chissà, magari potrò avere un negozio di abbigliamento.
Quali sono oggi i tuoi sponsor e cosa ritieni di poter dare loro di te stessa
Attualmente i miei sponsor sono due, La Sportiva e Petzl. Ho accettato le loro proposte perché mi piace dare il messaggio della ricerca della propria libertà tramite il superamento di alcuni limiti, culturali o sportivi. E mi piace alimentare i sogni di qualcuno.
photo © Jiuliana Livigni, Wafaa Amer, La Sportiva
Perché hai scelto proprio Finale Ligure?
Ci sono finita un po’ per caso, non l’ho scelto. Magari è stato Finale a scegliere me… Ora che me ne sono innamorata, non andrei ad abitare in altri luoghi. Sto cercando casa qui. Quando ho lasciato la famiglia, degli amici mi hanno portato nell’azienda agricola e sociale “Il bandito e la Principessa”. Lì ci sono rimasta per un po’, a continuare il mio percorso di crescita.
Ti piace abitare al mare? Come lo vedi rispetto alla roccia?
Finale mi piace proprio perché ha roccia e mare. Mi sono innamorata anche del mare. Quando ero ancora piccola, mio padre decise di portarci un giorno al mare. E, guarda caso, andammo proprio a Finale! Ma non vedemmo neppure la spiaggia, non ricordo perché. L’episodio mi è tornato in mente d’improvviso, dopo che mi ero già trasferita là. Forse nulla avviene per caso. Non trascorre mai molto tempo in spiaggia, sono più portata all’azione. Ma mi piace guardare il mare lungo l’intera giornata, fino ai colori del tramonto. Soprattutto d’inverno, o quando l’acqua è agitata e burrascosa. O quando piove.
Cosa pensi dell’orrore di Saman Abbas?
Sapere di quella notizia di cronaca è stato uno choc. Ho voluto parlarne con mia madre, ma non voglio riferire le sue opinioni. Ci sono rimasta male. E’ veramente brutto che cose del genere accadano. E’ successo anche nel mio villaggio, tutti sanno che una donna è stata uccisa dal padre perché non è arrivata vergine al matrimonio. Sono episodi che non mi appartengono, ma fanno parte della mia cultura. Sarò limitata, ma evito il più possibile di interessarmene, perché mi fa molto male. Non sono d’accordo con ciò che succede quando il genitore crede che tutto gli sia dovuto dal figlio perché a questi ha dato la vita. E non parliamo quando si tratta di una figlia… Chi viene ad abitare in un paese occidentale deve integrarsi e non può non riconoscere l’oscenità di queste tradizioni.
Hai trovato anche un amore? (se preferisci, non rispondere)
Certo che ho conosciuto l’amore. Sono stata con un ragazzo che mi ha trasmesso tanto, sia in arrampicata che nella vita di tutti i giorni. Sì, non era l’amore della vita, infatti è finito, però a lui devo veramente molto. Poi ho avuto un altro fidanzato… ma adesso non ci penso, perché ho tante cose per la testa, non voglio mettere, come dite voi, “troppa carne sul fuoco”. Perciò non voglio fare troppa confusione…
Qual è la tua più spiccata qualità?
Grinta e determinazione.
Qual è il tuo difetto più grosso (se ritieni di averne…)
Sono troppo buona, mi fido sempre delle persone e spesso ne rimango delusa. Questo mi fa soffrire, dunque ci provo a essere un po’ meno ingenua. Non so se è giusto, ma devo farlo.
Sei sensibile ai complimenti?
Sì, sono molto empatica ed emotivamente abbastanza fragile: quando qualcuno mi fa un complimento sincero, mi emoziono subito.
Ritieni di essere generosa?
Una delle cose che mi piace molto della nostra cultura, scritta nel Corano, è la generosità. Sono crescita quindi con l’idea che è importante aiutare il prossimo, anche se non si è ricchi o benestanti. Se puoi dare una mano, fallo. Senza pensare e senza andare a dirlo poi. Non vantarti d’aver fatto dell’elemosina. Se te ne vanti, il tuo bell’atto scompare di fronte al tuo stesso orgoglio. Ed è vero che ho aiutato delle persone, dunque sì, credo di essere molto generosa, nelle mie possibilità.
In definitiva, ti ritieni felice?
Nessuna risposta, non so se per dimenticanza o per scelta. Abbiamo preferito non indagare.
photo © Jiuliana Livigni, Wafaa Amer, Banff Mountain Film Festival